No.
Non lo è affatto. Forse per questo si insiste in ogni modo perché lo sembri.

Ho rivisto di recente i Musei Vaticani e la Cappella Sistina. Nella marea di turisti che invadevano i corridoi e le sale, non ho quasi incontrato persone che contemplassero le opere. Piuttosto, le fotografavano. Questa recente, nuova fruizione dell’arte mi disorienta e suona fasulla. Fotografare un’opera con il cellulare – non con una macchina fotografica, che richiede almeno la si sappia impiegare – non equivale a osservarla. Intanto osservare esige tempo, premere un pulsante no. Ma, soprattutto, osservare radica al presente, fotografare pospone il momento dell’osservazione, che non sarà più dell’opera vera e propria, ma della sua immagine.

Allora a cosa serve esserci, se la visione delle opere sembra essere demandata alla loro riproduzione? Perché fare un viaggio, per di più pagare un biglietto d’ingresso, per poi prestare attenzione a quanto si è fotografato una volta a casa, e attraverso il filtro della fotografia? Non basterebbero a questo scopo le innumerevoli immagini reperibili in rete o, meglio ancora, i molti cataloghi illustrati che tutte le biblioteche del mondo hanno consultabili? Mi si fa notare che le fotografie scattate in preda a questa che a me pare isteria collettiva sono per lo più finalizzate ai social network, che cioè comunicare di aver visto è prioritario rispetto ad averlo fatto davvero. Allora, ribadisco con più forza che l’arte non è per tutti.  Se i profeti e le sibille della Cappella Sistina finiscono per avere lo stesso valore di ogni altro momento fotografabile e comunicabile tramite i canali social, si protegga l’arte dalla banalità che la bidimensionalizza.

Non perché all’arte debba essere riconosciuto un valore sacro. Anche, eventualmente. Ma non si vuole, qui, insistere sul bisogno di una buona educazione culturale per accedere a ogni forma d’arte, dalla preistoria al contemporaneo. In realtà lo penso, ma non è questo il punto, e rischierei di essere fraintesa. Il discrimen tra chi dovrebbe poter godere dell’arte e chi, invece, no, è la disponibilità alla esplorazione, cioè a tentare di conoscere qualcosa che non si sa. Questo include potenzialmente tutti, anche le folle meno dotte. Non è un fatto di preparazione, benché la conoscenza permetta di tendere fili rossi attraverso il tempo, e allora guardare il profeta Daniele di Michelangelo non significa solo bearsi del suo polso piegato sul libro, o dell’ombra che scivola giù da una sua guancia, solletica il collo e va a gonfiarsi sulla schiena in tensione; o, ancora, del giallo abbacinante sul suo ginocchio (questa sola esperienza già renderebbe felici). Significa anche legare Michelangelo al pontefice Giulio II, pensare che, mentre la volta della Cappella Sistina si faceva, Raffaello lavorava alle Stanze Vaticane, e allora andare a cercare le Stanze proprio un po’ più in là, e trovarci la grazia speciale che è solo di Raffaello, e supera quella di Perugino, che nella Cappella Sistina era già stato chiamato prima di Michelangelo: solo per suggerire un piccolo assaggio di come si annodino i fili della storia e dell’arte.

Ma basterebbe molto meno. Basterebbe guardare le opere direttamente, non entro la cornice del cellulare. Ho visto qualcuno fotografare persino la didascalia di Apollo e Dafne del Bernini, alla Galleria Borghese. Avevo còlto altri farlo per opere in mostra alla Biennale di Venezia. Dunque non è un solo tipo di arte a richiamare su di sé un occhio superficiale e opportunistico – guardo quanto basta per inquadrare e scattare –, né è un solo tipo di pubblico a comportarsi così: eccezion fatta per i visitatori troppo maturi per avere familiarità con la tecnologia più moderna, o troppo piccoli per avere anche solo coscienza del luogo in cui si trovano, tutti gli altri sono colti dal delirio dello scatto.

 

Più ancora ho sofferto in Santa Maria del Popolo, a contatto con il Caravaggio de La conversione di san Paolo e La crocifissione di san PietroTra una funzione e l’altra, ho sopportato di stiparmi nello spazio ristretto della Cappella Cerasi, pur di riprovare l’incanto del cavallo da cui cade Saul, con l’impazienza dello zoccolo sollevato e terga le più sontuose della storia dell’arte, quello il vero miracolo. Ancora decine di mani alzate per fotografare o riprendere (il video è onnicomprensivo, non richiede neppure lo sforzo della selezione). Poi la voce del custode che ordinava di uscire per l’inizio della messa. La folla trattata come mandria, io pure mandria, nella folla. Con la differenza che io sono stata deprivata di un momento incantevole, mentre gli altri avevano già polverizzato ogni incanto convertendolo in fotografia o video, dunque non avevano mai desiderato essere incantati. Allora, io dico, l’arte dovrebbe essere solo per chi la vuole, viva nella sua capacità di vita, che è il suo palesarsi allo sguardo degli spettatori, non a un obiettivo distratto e bulimico.
Ma la volontà è anche prova di carattere, nella fatica che può comportare. E si è più spesso velleitari, che non volitivi.