Che in molti vogliano visitare le città d’arte italiane non stupisce. Che si sia arrivati a doverle proteggere dalla quantità di visitatori colpisce un po’ di più.

I tornelli introdotti di recente a Venezia per regolare il flusso dei turisti sollecitano qualche riflessione.

Anni fa, per la mostra di Caravaggio che si tenne a Roma alle Scuderie del Quirinale, accettai di fare una coda di ore sotto il sole cocente. Il risultato fu che quando finalmente approdai all’interno delle Scuderie ero stanca e di malumore, anche perché non si poteva sostare davanti alle opere per la quantità di gente che premeva alle spalle e accanto. Le luci erano fioche (come era giusto fossero), e noi tutti ci aggiravamo intorno ai capolavori come anime precipitate. Mi ripromisi che non avrei più accettato di vedere qualcosa in quelle condizioni, e così è stato. Se non posso godere di quanto desidero, piuttosto vi rinuncio.

Ci sono esperienze che il numero di partecipanti intensifica. Per esempio, essere in pochi in una sala cinematografica può risultare deprimente. Il cinema è nato come intrattenimento popolare, ha bisogno di una platea in cui il riso e il pianto diventino contagiosi, e persino si mischino a patatine e pop corn, se necessario.

Le strade di New York colme di pedoni e di taxi gialli restituiscono il ritmo di una metropoli che neppure la notte conosce il silenzio.

Las Vegas senza turisti – anche sguaiati – sembrerebbe un luna park spettrale.

Ho conosciuto giovanissima le Cinque Terre, percorrendone a piedi le mulattiere, dove si incontravano rari turisti per lo più inglesi e francesi, che salutavano sorridendo. Ci sono poi tornata più volte, e l’ultima, una decina d’anni fa, ho deciso che sarebbe stata l’ultima davvero, perché alla stazione di Monterosso i treni rovesciavano sul binario centinaia di viaggiatori, e a metà pomeriggio sembrava di essere a Rimini. Monterosso, un borgo di pescatori di poco più di mille abitanti.

Ora, le città d’arte italiane sono piccole, i loro centri storici circoscritti, hanno secoli di storia e sono state pensate per un passo più lento. Sarebbe ridicolo pretendere di cogliere in Piazza della Signoria l’atmosfera della Firenze medicea, ma la sequenza Santa Maria del Fiore, Palazzo della Signoria, Uffizi trasformata in una fiumana ininterrotta di genti equivale all’annullamento della memoria di quei luoghi.

Foto: Riccardo Cuppini

In ogni piccolo posto nato per essere un gioiello, finiscono per esserci troppe voci, troppi schiamazzi a soverchiare il naturale scorrere delle attività e il farsi dei giorni; c’è il peso parassitario di chi è lì per usare un luogo, non per conoscerlo: la conoscenza comporta un tipo di concentrazione che già rende lo schiamazzo improbabile.

Va da sé che non possa avere il diritto di visitare le città d’arte solo chi sia dotato di strumenti storico-artistici. Né si può sottoporre a test d’ingresso chi voglia accedere ai luoghi. Però il problema si annida proprio lì, nella frequente inadeguatezza culturale di chi viaggia.

Ora, saper viaggiare non significa aver immagazzinato dati prima della partenza; richiede semmai che la forma mentis sia quella di chi cerca, di chi esplora. E chi esplora si avvicina alla meta in punta di piedi.

Se ci fosse un pubblico più accorto, non ci sarebbe neppure massima concentrazione di visitatori negli stessi giorni festivi, perché i visitatori stessi non sopporterebbero la ressa, dunque si distribuirebbero da sé in momenti vari, senza bisogno di essere gestiti come mandrie disordinate.

Ma qui si fa necessario sottolineare altro ancora. Che cioè gli appetiti più spiccioli di chi si aggira nelle città d’arte – vedere qua e là, comprare souvenir, consumare pasti – è assecondato dal numero esorbitante di attività commerciali disseminate ovunque. Al punto che a Venezia si arriva a proibire anche l’apertura di nuovi locali di cibo da asporto.

E qui, di nuovo: io mi chiedo perché a Los Angeles, in Rodeo Drive, che ha raggiunto fama internazionale come scenario di un film non certo epocale quale ‘Pretty Woman’, nessuno oserebbe mai lordare la pavimentazione con i resti di spuntini consumati al volo, e invece sembra ci si senta autorizzati a ogni mancanza di rispetto per contesti storicamente gloriosi. Secondo voi, come reagirebbero i gestori dei negozi di Cartier, o Tiffany, o Chanel, se turisti sciatti si sedessero davanti alle loro vetrine addentando tranci di pizza? Chiederebbero forse l’intervento di una vigilanza pronta a multare? E chi mai reagisce quando, con medesimo intento, interi gruppi di ogni età sostano sui gradini di Santa Croce o di Piazza San Marco? Nessuno, purché i turisti comprino e consumino.

Foto: caccamo / Flickr.com

Ecco, se le vetrine di Tiffany sono più degne di rispetto delle calli di Venezia, le categorie interpretative si sono pericolosamente mescolate nella nostra testa, e nella confusione che regna ovunque diventa più facile intervenire con limiti e restrizioni, che non appellandosi a una consapevolezza che, di fatto, non c’è.


Immagine d’apertura: Claudio Pimazzoni / Flickr.com