Tuttomondo è una pittura murale di grandi dimensioni che Keith Haring dipinse a Pisa, sul fianco della canonica di Sant’Antonio. Accanto alla stazione ferroviaria. Nel 1989.

In quel momento Keith Haring era già un graffitista famoso, dominava la scena newyorkese, fino a poco prima in compagnia di Jean-Michel Basquiat, artista afroamericano talentoso e trasgressivo; soprattutto, loro due avevano segnato la ripresa della pittura dopo certa mestizia del Concettuale, nuova pittura chiassosa, e intenzionalmente sopra le righe per una sua vocazione popolare: Keith Haring aveva incominciato a vergare con gessetti piccole figure dinamiche nella metropolitana di New York, illegalmente, negli spazi deputati alla pubblicità.

L’artista aveva un tratto sintetico che immergeva nel colore, e i suoi murales erano spesso un inno alla joie de vivre, un po’ come La Danse di Matisse, di quasi ottant’anni prima. Parlo al passato perché – è noto – Keith Haring non c’è più da molto, e anche Jean-Michel Basquiat. La loro fine prematura e feroce – l’uno morto di AIDS, l’altro di overdose di eroina – ha certo contribuito a magnificarne l’aura.

Ma a Pisa non siamo a un’asta, non si respira il fanatismo collezionistico, si è per strada, e le figurette vibranti di Keith Haring non si curano delle sue quotazioni, piovono dall’alto della parete sulla strada, vengono incontro ai passanti come i fischi dei treni un po’ più in là, generando movimento quasi più di quelli. Si è extra moenia rispetto alle leggi di mercato, se i passanti si voltano a guardare, lo fanno anzitutto perché l’occhio è felicemente solleticato dall’esuberanza compositiva.


Immagine: FaceMePLS / Flicker.com

Non è un murale di oggi, ha ormai trent’anni: nell’economia di un’analisi storico-artistica, avrebbe valore già solo per questo, perché espressione del decennio più vivace dell’esperienza del graffitismo americano. Che Pisa, un po’ sempre sonnacchiosa in quanto a contemporaneo, l’avesse accolto in tempo reale, non in preda alla frenesia del revival, era anche prova di improvvisa apertura a un linguaggio artistico straniero. Infatti non sulla facciata del Duomo o sul muro del Camposanto, ma su una parete spoglia, che la pittura andava a rianimare, come nelle intenzioni originarie di quel tipo di intervento artistico.

Ripercorriamo allora i passi: il murale non solo è una buona prova della pittura americana post-pop, eppure fiorita a Pisa, non nel Bronx, ma la sedimentazione storica che si porta appresso gli conferisce valore come la “patina” di cui Cesare Brandi parlava a proposito del rispetto del tempo depositatosi sulle opere d’arte, che restauri radicali non possono pretendere di cancellare.

Nel correre rapido del contemporaneo, trent’anni equivalgono poi ad almeno cento, nel confronto con i secoli precedenti. Si tratta cioè di una fase artistica pionieristica, rispetto alla successiva Street Art.

Il problema è che tutti sembrano voler parlare d’arte, specie quella contemporanea. Tutti pensano di poter esprimere un loro gusto, pur non avendo maturato nessuna posizione critica oggettivabile. Si passa allora dall’idolatria isterica al rifiuto preconcetto, con la supponenza che è spesso degli impreparati.

A chi si è recentemente espresso contro il murale di Keith Haring, non si deve neppure suggerire un po’ di sano studio, è tardi, meglio sarebbe stato prepararsi per tempo a scuola, e consolidare la formazione a seguire, perché lo studio della storia – la storia dell’arte è storia – non è cosa da poco. Lo si inviterebbe piuttosto a limitarsi alle sue competenze, e a non essere così ingenuo da credere legittime le sue opinioni: l’unica ingenuità che sfugge al ridicolo è quella dei bambini e delle anime candide.

Mi torna alla mente, a tal proposito, il gesto di Mario Borghezio, europarlamentare leghista che nel 2014, presso la sede del Parlamento di Strasburgo, girò verso il muro il quadro di una donna crocifissa, eseguito a tecnica mista da Bruno Cassinari nel 1977: lo riteneva blasfemo.

Immagine: Bruno Cassinari, Il dolore, 1977 (foto Archivio Bruno Cassinari)

Borghezio ignorava con evidenza la portata anche solo della data di esecuzione dell’opera, se non dell’autore. Dimenticava che gli anni Settanta, in Italia, erano stati animati dalle lotte femminili a sostegno di divorzio e aborto, lotte per cui le donne erano state spesso stigmatizzate dall’opinione pubblica.

Il nudo femminile sulla croce alludeva alla storia contemporanea, non violava simboli della religione cristiano-cattolica.Per non dire del pregio della pittura di Cassinari.

Ma Borghezio non poteva rinunciare a un interventismo stolido, perché quello era il suo stile.

Ecco, quando il punto di vista è unico e invariabile, perché privo dei presupposti culturali capaci di renderlo invece articolato, sarebbe meglio esserne gelosissimi e tenerlo solo per sé.

 


Immagine in apertura: Dimitris Kamaras / Flickr.com