Fino al 26 febbraio 2018 nella sede milanese della Fondazione Prada l’irriverente mostra del collettivo austriaco. L’ha visitata per The Review lo storico dell’arte Silvia Ferrari Lilienau.

 

Gli artisti del gruppo Gelitin sono il giusto pizzicotto per chi si ostina a pensare che Vienna sia una città pulita e ordinata, che i Viennesi siano amabili come l’imperatrice Sissi, e che tutto, in Austria, sia (con Matisse) “lusso, calma e voluttà”. Certo, il biancore espositivo degli spazi della Fondazione Prada ne attenua l’irriverenza, e sembrano quasi solo burloni: la scultura in plastilina di un uomo nudo rovesciato a ponte, l’acqua zampillante dal suo sesso in erezione che gli ricade nella bocca aperta; un igloo fallico in polistirolo; una costruzione spiralica al cui interno è possibile fumare. L’igloo monumentale che si erge verso l’alto è un po’ tiepido, a dispetto dell’algore evocato. Si accosta pericolosamente al sense of humour del conterraneo Erwin Wurm, ampiamente squadernato nel padiglione austriaco alla Biennale di Venezia appena conclusasi.

Ma gli altri due lavori – irritanti come risultano – sono intrisi di umori e storia della capitale che è stata asburgica. Intanto, Arc de Triomphe risale al 2003, quando venne collocato a Salisburgo, davanti al Festspielhaus (Salisburgo, si sa, ospita un famoso festival musicale). In quell’occasione, la scultura risultò inopportuna come infatti la si voleva, e venne rimossa anzitempo. L’opera non è dunque nuova, se non per la contestualizzazione che ora ne falsa l’effetto: ben più impegnativo mettersi alla prova con le reazioni della piazza. Tuttavia, permane nella cornice attuale la spiacevolezza della materia molle e disomogenea nella cromia, con i dettagli disturbanti della peluria sparsa o delle vene in tensione, e questa volta non della mano, come invece magnificamente Michelangelo nel David o nel Mosè. Oltre al fatto che l’acqua zampillante qua e là ricade in piccole pozze che fanno pensare a sputacchi.

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Lo stesso anno dell’esperimento salisburghese, i Gelitin si esibirono dal vivo, nudi e nella stessa posizione, alla Frieze Art Fair di Londra. Ma cosa saranno mai corpi nudi inarcati, in confronto alla defecatio compiuta da Günter Brus all’università di Vienna, nel 1968? O, più in generale, rispetto alla violenza autolesionista del Wiener Aktionismus? Un corpo nudo in plastilina è la copia dimidiata di tutte le nudità che hanno attraversato con crudezza la scena viennese tra gli anni Sessanta e Settanta. Non che i Gelitin non lo sappiano, lo sanno anzi benissimo, e dunque ci giocano. Tutto, in Gelitin, regredisce all’infanzia, persino l’erotismo, quasi in direzione opposta rispetto alle modalità freudiane: se Freud individuava pulsioni erotiche anche nel bambino, in Gelitin diventa bambino anche l’eros. Persino l’idea della morte in Gelitin ha trovato forma in un enorme coniglio rosa di pezza, abbandonato nel 2005 sulle alture del cuneese, ed esposto per venti anni alle intemperie e al degrado. I Gelitin probabilmente sanno pure che – a dispetto della fama della pittura di Klimt, pur in parte ridotta a brilluccichii per turisti golosi del Bacio come della Sacher Torte – l’anima più innovativa dell’arte austriaca è l’architettura, specie nel Novecento, da Otto Wagner e Joseph Maria Olbrich a Adolf Loos, da Hans Hollein a Coop Himmelb(l)au.

Questo per arrivare alla installazione della terza sala, fabbricata con legno di reimpiego, soprattutto di ante di mobili dozzinali tutti diversi. Impalcatura spiralica che rievoca la Raumbühne presentata da Friedrich Kiesler alla Mostra internazionale della nuova tecnica teatrale tenutasi al Konzerthaus di Vienna nel 1924, un progetto di teatro fatto di rampe lignee avvitate verso l’alto. In Gelitin si aggiunge della moquette polverosa, quella di certi café viennesi in cui si può stare seduti a leggere un intero pomeriggio con una sola consumazione, con il cameriere in divisa che ogni mezz’ora porta un bicchiere d’acqua. Che poi, uno alla volta, nello spazio di Gelitin si possa fumare guardati dagli altri finisce forse per colpire chi abbia rinunciato da tempo al fumo nei locali pubblici, ma a Vienna – quasi più turca di Istanbul – il divieto non è ancora prevalso. Il fumo è una nota in margine rispetto alla risalita tortile che sa delle utopie di Kiesler, nel 1926 già in partenza per New York, dove avrebbe legato il suo nome all’audacia espositiva di Peggy Guggenheim.

Il senso è: i Gelitin più inventivi sono quelli che costruiscono come castori operosi, reimpiegando di tutto, e con il gusto del sedimento polveroso che è un po’ il cuore di Vienna, quello che si impara a conoscere uscendo dalla Innere Stadt e dalle guide turistiche. Sembrano meno incisivi quando invece strizzano l’occhio a chi ridacchia davanti ai loro falli veri o metaforici, benché la firma di Gelitin comprenda certo spirito buffonesco. Solo che lì si cela il sospetto che il turgore insistito provi a compensare certa esilità ideativa. Dunque proprio lì, dove si ride, da ridere c’è ben poco.